SEAY, storie di imprenditoria sostenibile

Storie di imprenditoria sostenibile: SEAY

SEAY è un brand di abbigliamento sostenibile e beachwear a basso impatto ambientale nato da un’idea di Alberto Bressan tre anni fa e recentemente nominato tra i “Best for the World 2022”. Ci siamo fatte raccontare da Alberto l’inizio di questa avventura, i suoi sviluppi e le soddisfazioni e sfide del costruire un brand realmente sostenibile.

NAMA:
Ciao Alberto e grazie per aver accettato questa chiacchierata con noi! So che SEAY | Soseaty Collective è nato da un inaspettato cambiamento nella tua vita professionale, e dalla capacità di farne un’opportunità. Ci puoi raccontare qualcosa di più sulla nascita di questo progetto e sulla scelta di lavorare su un marchio di abbigliamento sostenibile? 

ALBERTO:
Grazie a voi per l’invito! L’inizio di SEAY è coinciso con il mio licenziamento quindi possiamo parlare di un inizio frutto della voglia di rivalsa di un “non-più-giovane” ragazzo veneto. Sono passate meno di 24 ore dalla telefonata delle risorse umane della multinazionale americana per la quale lavoravo alla decisione di provare a fare le cose diversamente. Sì perchè SEAY nasce proprio per questo, per dimostrare che fare le cose con un ridotto impatto ambientale non solo è possibile ma anche, e soprattutto, un dovere morale e sociale per tutti coloro i quali facciano impresa. Ho una figlia di 9 anni e se voglio lasciarle un mondo simile a quello della mia infanzia negli anni ‘80 dobbiamo tutti fare qualcosa e farlo subito senza nasconderci dietro paroloni che profumano di green economy ma che in realtà celano modelli di business che per nulla si discostano dalla old-economy che ci ha portato al disastro dei giorni nostri.

Ragazzo cammina su spiaggia indossando abiti SEAY

NAMA:
L’obiettivo di Seay è quello di “Diventare il marchio di beachwear e abbigliamento a minor impatto ambientale del mondo”. State già facendo molto per perseguire questo obiettivo, e nel 2021 siete diventati una B Corp certificata. Ci puoi raccontare come vi siete approcciati all’obiettivo di costruire un brand il più sostenibile possibile? Quali sono stati gli aspetti più complessi da gestire, e quali le maggiori soddisfazioni? 

ALBERTO:
Dietro ad un obiettivo ambizioso c’è una forte volontà di fare le cose per bene. Chi certifica che i “claim” urlati dalle aziende e dalle organizzazioni sono in realtà reali e perseguiti davvero? Abbiamo voluto fare un percorso trasparente diventando prima una società benefit (abbiamo quindi l’obbligo di pubblicare ogni anno una relazione d’impatto circa il nostro operato come questa) e portando a termine la certificazione B Corp raggiungendo il punteggio più alto in Italia per un’azienda del fashion business. La bella notizia è che siamo appena stati nominati “best for the World 2022” da B Corp, ossia inseriti nel 5% del gotha delle aziende con i risultati migliori al mondo.. E la cosa ci rende di grande orgoglio. Orgoglio perché c’è un ente terzo che è venuto a certificare che quello che proclamiamo è implementato e perché siamo tenuti al rispetto del secondo colore per noi più importante tra quelli disponibili (dopo il verde), ossia il trasparente. E’ stato un percorso complesso che ci ha visti impegnati per circa 9 mesi e con delle review di un team malese che ha seguito la nostra certificazione. La cosa più complicata a mio avviso è stato avere tracking record sufficienti per essere misurati e giudicati, siamo pur sempre nati appena 3 anni fà.

NAMA:
Avete creato il Modello Re3: rivendi, riutilizza, rigenera. Ci puoi spiegare come funziona, e come hanno reagito i vostri clienti a un coinvolgimento così attivo dell’utente finale nel riutilizzare i propri capi ormai non più indossati? A tuo avviso quale ruolo giocherà la tecnologia blockchain nella tracciabilità del prodotto in futuro? 

ALBERTO:
Dopo esserci occupati della produzione (prevalentemente made in Italy e a filiera corta), del packaging (compostabile ed organico), dei materiali (certificati organici o riciclati), delle tinture (a ridotto impatto) e della catena logistica in uscita (compensata a livello di Co2) il Modello Re3 ci sembrava il giusto strumento da implementare per andare ad agire anche sui prodotti (di altre marche) già in circolazione e non più utilizzati. Grazie al Modello Re3 infatti, i nostri clienti hanno la possibilità di consegnarci un loro indumento usato che non viene più indossato donando ad esso nuova vita beneficiando al tempo stesso di green bonus pari al 20% del valore del capo SEAY acquistato. Grazie ad un sistema di tracciamento che abbiamo brevettato, il cliente può seguire l’intero percorso di riutilizzo del capo usato consegnato, scoprendo in tempo reale se il proprio usato è stato rigenerato in nuovo materiale, rivenduto come second-hand o riutilizzato attraverso ad una donazione in beneficenza. A due anni dall’avvio del Modello Re3 sono moltissimi i clienti che ne hanno tratto beneficio e, nella maggior parte, facendosi guidare dall’aspetto ambientale piuttosto che da quello economico (ossia da bonus).

Ragazza indossa giacca azzurra SEAY

NAMA:
Oltre ad incoraggiare la raccolta di capi usati, Seay si impegna ad utilizzare un imballaggio riciclabile, a compensare le proprie emissioni di logistica e trasporto, a utilizzare service produttivi entro 100 km dalla sede e materie prime certificate. Puoi raccontarci qualcosa in più su questi quattro punti? Qual è la prossima area di intervento su cui prevedete di lavorare per rendere Seay ancora più sostenibile?

ALBERTO:
Le 4 aree indicate sono i pilastri sui quali abbiamo costruito il nostro modello di business sul quale poi abbiamo aggiunto il quinto pilastro del Modello Re3. Ad oggi ci sentiamo di dover fare ancora molto, moltissimo. Prossimo passaggio sarà quello di lavorare sulla sede che ad oggi ospita la nostra organizzazione, uno spazio di coworking molto bello ma che può migliorare le proprie performance di impatto ambientale e sul design della collezione. Ad oggi infatti siamo focalizzati sui materiali e sulle relative certificazioni, il prossimo passaggio sarà quello di rendere la confezione dei nostri prodotti ancora più a misura di “disassemblaggio”, facilitando quindi la scomposizione dei futuri capi a marchio SEAY quanto più possibile al fine di facilitare il reimpiego dei singoli elementi che li compongono. 

NAMA:
Chi sono le persone che rendono speciale il vostro team? Cosa le accomuna?

ALBERTO:
Il team di SEAY è ad oggi un piccolo team di 11 persone, tutte con una grandissima voglia di rimettersi in gioco dopo inciampi professionali più o meno significativi. La fashion industry è un’industria cinica e ci piace pensare di aver dato una seconda chance a professionisti seri e preparati che hanno alle spalle un passato importante e davanti a loro un futuro prospero.

Ragazzo esulta indossando felpa rosa SEAY

NAMA:
Ci sono altri brand o progetti con mission simile alla vostra che desiderate condividere con i nostri lettori? Se sì, quali?

ALBERTO:
Di brand che ci piacciono ce ne sono molti, a partire da quello che considero il capostipite di un certo modo di fare business ossia Patagonia. Sono un gran fan anche di brand più recenti ma ormai molto affermati come Organic Picture Clothing e EcoAlf o di brand più piccoli ma serissimi come l’italianissimo Rifò. Purtroppo, accanto ad eccellenze come quelle di cui sopra, il mercato è pieno zeppo di venditori di “fumo verde” che fanno perdere di credibilità all’intero gruppo dei “green warriors”.
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